martedì 26 febbraio 2008

Con

Come l'anno scorso, oggi c'ero anche io al Cisco Expo 2008. Tra visioni futuribili e interminabili code al buffet, la giornata è passata nel migliore dei modi, lasciandomi il ricordo di un leggero mal di piedi. Ora sono a casa, finalmente senza scarpe, finalmente seduta.
Tra gli interventi proposti, quello di un professore di telecomunicazioni del Politecnico di Milano lasciava libero spazio alla visione di un futuro in cui la rete non sarà solo delle persone, ma degli oggetti. Ad esempio, potremmo pensare un giorno di indossare degli abiti "conduttivi" che saranno essi stessi una piccola rete locale in grado di offrire servizi a chi li indossa. Pensate a un signore che veste un paio di guanti dotati di una piccola rete interna, che lo rendono in grado di aprire porte, autenticarsi in determinati luoghi o contesti... robotica e domotica e autenticazione, tutto integrato. Di nuovo, si è parlato di web collaboration: condivisione di file, video, immagini, contenuti, formazione. Tutti potremo lavorare insieme a persone che si trovano dall'altra parte del globo; basterà (e basta già) disporre di browser e fare click. E il mondo della rete fissa e della rete mobile si riuniranno nuovamente: potremo così installare ad ogni palo del telefono un punto di accesso, un "nido", come è stato chiamato con un termine che mi piace molto, in grado di offrire qualunque tipo di servizi a noi tutti, ai cittadini.
Giornate come questa sono preziose per capire dove siamo e dove stiamo andando: e anche se noi non lo sappiamo o ce ne freghiamo, c'è chi ci pensa per noi. E a noi, se proprio non vogliamo essere parte attiva di questi cambiamenti, basterà accettarli con naturalezza quel tanto che ci basta o quel tanto che ci serve. Per esempio, una volta di più oggi s'è parlato di blog, di web 2.0 (anche 3.0), di facebook, di widget personalizzati dall'utente e bla e bla. E uno si chiede: ma che è sta roba, poi fanno l'esempio e vien da dire: ah ok, non potevi dirlo prima: la uso tutti i giorni, è 'na cagata. Di fatto, la gente comune avanza a piccoli passi e assorbe le novità con quell'indolenza con cui un bel giorno decide che non ne può più di affettare le zucchine col coltello e si compra il tritaverdure. Di fatto, la gente può anche non avere la percezione delle magnifiche sorti e progressive che ci attendono, e a simili, poderose ventate di novità reagire con uno sbadiglio trattenuto, e a slogan come "grazie alla collaboration ho più tempo per me e per fare ciò che mi piace" rispondere arricciando il naso: "stronzate, se il mio capo mi becca ovunque mi troverò a lavorare anche sul cesso, altro che tempo libero". Di fatto, la gente se ne impippa della telepresenza e ritiene comunque indispensabile vedersi di persona (come mi è stato fatto gentilmente notare), lavora quel tanto che è necessario, e suda freddo ogni volta che in ufficio gli tocca far partire una conference call a tre.
Da parte mia, tutte queste novità mi catturano solo per un paio di ore, precisamente le ore che precedono il pranzo, perché dopo aver mangiato a me mi scatta la narco-conference, altro che collaboration. Mi manca forse la capacità di astrazione, l'entusiasmo o che so io. E però se ci penso meglio mi accorgo che mentre ero là in un paio di occasioni ho sentito la necessità del pc per scrivere tutto ciò o anche solo per verificare delle informazioni o per condivere un paio di considerazioni con qualcuno (al che mi sono buttata sugli SMS). E ora che sono qui coi piedi a mollo e ci ripenso mi rendo conto che per quanto mi accorga di essere social e godere di questo fatto, la mia paura resta questa, che la mania di condividere e collaborare e comunicare faccia sentire a tutti il bisogno di correre a piantarsi davanti al monitor di un PC o di un palmare ovunque siamo e appena ne abbiamo l'occasione, e che la mania di raccontare a Josh che sta dall'altra parte del pianete cosa ci sta accadendo ci faccia perdere di vista Peppino o Concetta che stanno di fianco a noi, e che la frenesia di dire a tutti quello che stiamo facendo o faremo o abbiamo fatto ci faccia dimenticare un po' ciò che siamo, sino a portarci a indulgere eccessivamente verso noi stessi e i nostri difetti (!). Convivere con l'ansia costante di esprimere una sensazione nel mentre che la proviamo, di diffondere le idee non appena ci saltano in testa, potrebbe portarci da un lato a vedere noi stessi come generatori di contenuti che devono essere sempre freschi e inediti (pura illusione) e divertenti (altra illusione), e dall'altro a trovare gratificazione solo attraverso la condivisione continua (a volte non richiesta!), con l'effetto di pensarci meno noiosi o pesanti di quanto siamo in realtà: io condivido, dunque sono (figo). E così ci sentiremo meno soli ma forse proprio per questo meno liberi, giacché il nostro essere, noi e le cose che facciamo e ciò che pensiamo non sarà obbligato ad avere una dignità in sé e per sé, in quanto avrà una sua dignità già nel momento in cui lo faremmo rimbalzare nel web di chat in chat, in mail, in conferenza, in video, ovvero già nel momento in cui saremo ricevuti, assimilati, risposti, condivisi (non è detto compresi, più verosimilmente letti e dimenticati), solo nel momento in cui riusciremo a proiettarci e rifletterci e spezzettarci in miliardi di bit che viaggiano per la rete. Solo allora ci sentiremo davvero noi: indipendentemente da cosa saremo, saremo noi per il solo fatto di aver condiviso qualcosa, e di essere stati in grado anche oggi di comunicare con Josh che sta viaggiando in treno dall'altra parte del mondo, e avergli raccontato una stronzata diversa dalla stronzata che gli abbiamo raccontato ieri, ma che esattamente come la stronzata di ieri non fa ridere nessuno.
Con-divisione
Col-laborazione
E io dove sto?

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Di Tengi |

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